GRETA VAN FLEET: AMARLI OD ODIARLI?

Il 2018 appena concluso, dal punti di vista musicale (o almeno da quello della musica rock) ha consegnato una novità assoluta che, fin da subito, ha suscitato l’interesse del pubblico e, in parallelo, un enorme divisione fra amanti e detrattori: i Greta Van Fleet.

Il mio primo contatto con i quattro del Michigan si è svolto più o meno così: traffico di Roma, radio Rock in macchina, sento una canzone e un po’ perplesso mi chiedo come sia possibile che ci siano canzoni dei Led Zeppelin che ancora non conosca. Lo speacker disannuncia il brano e l’arcano viene scoperto: semplicemtne te non sono i Led ma i GVF.Perché sì, va detto subito e chiaramente, una delle peculiarità di questo giovane gruppo, sua forza da un lato e debolezza dall’altro, è proprio una estrema somiglianza con il gruppo padre dell’Hard rock mondiale.

Non si parla solo di somiglianza nella timbrica di Joshua Kiszka, frontman del gruppo, ma più in generale nello stile dei riff, nella struttura di certi assoli, negli arrangiamenti, nel sound che da un chiaro effetto revival anni settanta.

Del resto se capita di ascoltare una band che riesce bene o male a farsi accostare a mostri sacri come i Led Zeppelin, come minimo è necessario soddisfare l’inevitabile curiosità di ascoltarli di più e capire fino a che punto la cosa sia un “gioco voluto” e quanto sia invece una “necessità tecnica e compositiva”.

La cosa non è ovviamente sfuggita ad addetti ai lavori così come al grande pubblico, creando fin da subito in entrambi una netta divisione fra sostenitori e detrattori del gruppo americano.Questi ultimi soprattutto, pur dovendo riconoscere la bravura tecnica dei quattro ragazzi poco più che ventenni, ritiene l’aspetto imitativo prevalente, forzoso e, in definitiva, prevalente rispetto alle indiscusse doti della band. 

La discussione non ha esentato nemmeno molti big del rock: secondo Alice Cooper ad esempio “Il rock è quel genere di musica che è destinato a non morire mai – ha detto – ci sono tante nuove band adesso, pensate ai Greta Van Fleet. È un gruppo che ha riflettuto sul fatto che i Led Zeppelin hanno dominato la scena musicale a lungo e che si è quindi detto ‘Facciamo i Led Zeppelin’. La gente è pronta per i nuovi Led Zeppelin, ecco quindi che il rock torna di nuovo a essere in prima linea”.

Fra gli estimatori va certamente annoverato anche Elton John che, dichiaratamente colpito dalle doti del gruppo, ha deciso di invitarli a esibirsi con lui al Saturday Night’s Alright for Fighting durante l’Academy Award PartyAnche lo stesso Robert Plant, in una intervista molto cliccata in rete ha scherzato sull’accostamento della band statunitense con Led, lasciando intendere un certo apprezzamento: “C’è una band chiamata Greta Van Fleet, sono i Led Zeppelin I – ha detto – hanno questo meraviglioso giovane cantante, molto forte.. lo odio! Ha preso in prestito la voce da qualcuno che conosco molto bene, ma che cosa ha intenzione di fare? Almeno ha un po’ di stile, perché ha detto che ha basato tutto il suo stile sugli Aerosmith”.

Al di là delle opinioni espresse da cantanti di gran successo, vale comunque la pena fare alcune considerazioni derivanti dall’ascolto dei GVF.Sono senza dubbio un gruppo formato da giovanissimi, tuttavia a questo non corrisponde una produzione acerba e prevalentemente spontanea.

Il merito di ciò (se di merito trattasi), va probabilmente attribuito al lavoro che sulla band ha svolto Al Sutton, produttore d’esperienza con all’attivo numerose collaborazioni importanti e che, intuite le potenzialità di Kiszka & Co., ha fatto lavorare il gruppo in studio per più di due anni al fine di ottenere un EP pronto per una major;Sono bravi, molto. Si può stare a dire quanto si vuole che si ispirano (per chi gli vuole bene) o scimmiottano (per gli altri) i Led Zeppelin, come se peraltro farlo rimanendo credibili fosse una cosa facile o banale.

La realtà è che, pur volendo aderire alla tesi dei “copiatori”, suonare come i Led, cantare come i Led, creare quel sound bisogna saperci decisamente fare.

Sono al primo lavoro in studio ed è ancora presto per capire come evolverà il loro suono o il loro modo di comporre ma è fin troppo noto quanto sia stretto lo spazio in cui un gruppo debba muoversi per replicare un successo precedente, sempre col rischio di essere giudicati ripetitivi da un lato e con quello di discostarsi troppo dal sound che lo contraddistingua dall’altro.

Di certo ad oggi hanno dimostrato di sapersi districare in una forma autentica di rock che, oltre ai citati Led Zeppelin, richiama da vicino altri grandi del genere come Who e Aerosmith, fatto di riff graffianti ma anche di ballad di cui, in tutta onestà, non esistono ad oggi numerosissimi esempi fra le band emergenti.Assomigliano ai Led Zeppelin? Per adesso indubbiamente sì.

Dubito comunque che, se qualcuno avesse chiesto in anticipo se sarebbe stata una bella sorpresa o meno scoprire una nuova band che ricordi così da vicino Plant e compagni, in molti avrebbero risposto con uno sdegnato diniego.Tutto ciò a maggior ragione se confrontiamo i Greta Van Fleet con ciò che offre il panorama nostrano, in cui spesso e volentieri le major raccattano gruppi dai reality (cosa che di per se non sarebbe neanche un problema se poi alla base ci fosse la qualità), e dove band come i Maneskin vengono dipinti come “geniali ed innovativi”.

A questo punto, a mio modestissimo avviso, Greta Van Fleet tutta la vita, nella speranza che questo sia solo l’inizio e che il successo non li faccia smarrire come troppo spesso accade quando arriva repentinamente.

La notte magica dei Foo Fighters a Firenze

Difficile trovare le parole per descrivere la notte magica dei Foo Fighters al Firenzerock, le emozioni che io e gli altri 65.000 presenti abbiamo provato, ma una cosa è chiara: i Foo Fighters sono attualmente una delle band di riferimento nel panorama mondiale del rock, e la cosa è arcimeritata.

La questione non è (o non è solo) legata alla qualità delle loro performace live, e nemmeno alla scaletta. C’è di più: I Foo Fighters sono una band matura, che ha raggiunto nei tanti anni di carriera un equilibrio incredibile, che si diverte a suonare assime e che fa trasparire tutto questo in ogni concerto, che sia di fronte a poche migliaglia di persone in un palazzetto, o ai 65.000 fan di Firenze rendendo il tutto sempre estremamente informale e intimo.

Nelle loro serate non c’è l’ombra di conflitti interiori, non c’è unione posticcia di grandi performer che a malapena si sopportano; c’è soltanto voglia di fare rock e di coinvolgere chi è li per seguirli, di far urlare e cantare il pubblico. Sarà per questo che, nonolstate i mille limiti dei festival estivi in Italia, nonostante i Token, nessuno lascia il concerto meno che entusiatsta.

Dave e compagni iniziano a suonare che sono da poco passate le nove. Icebreaker con Runa,singolo di Concrete and Gold, per poi sparare subito tre classiconi e far esplodere il pubblico. 

Nel complesso una scaletta bel bilanciata, per lo più solidamente appoggiata su pezzi familiari, con l’inserimento puntuale di alcui singoli dall’ultimo album; diversi intervalli strumentali, qualche cover ( come non citare il  mash-up Jump/Imagine o Under Pressure  con Taylor alla voce e Dave alla batteria, oltre che come seconda voce alla Bowie ). Il tutto con un Dave in gran forma che urla fin dal primo pezzo ma caopace comunque di misurarsi per arrivare bene fino a fine concerto; che spesso interagisce direttamente col pubblico chiamando in causa i “nuovi fan” che “devono guardare i vecchi ed imparare da loro”.

A Visarno il pubblico avrà quello che vuole: due ore e mezza di concerto in cui sentiranno tutti i classici che volevano urlare, da Learn to Fly fino ai 3 bis (Times Like These, This Is a Call e Everlong), ed in cui Dave e i FF creeranno quell’empatia che ti fa realmente assaporare le emozioni di un concerto.

 

La serata regala anche una perla inattesa che ha letteralmente fatto esplodere il pubblico: Axl Rose, Slash e Duff McKagan che salgono sul palco per una versione pazzesca di It’s So Easy suonata insieme ai FF. Ok, lo ammetto, in quel momento credo di aver urlato di tutto e perso definitivamente quel po di voce che mi rimaneva.

Perché alla fine andare ad un concerto è questo: essere coinvolti, saltare, urlare, cantare i pezzi (e i 65.000 non hanno certo deluso), passare una serata convinti che si stia assistendo a qualcosa di bello, ancora piu uniti agli amici che erano con te e con cui ricorderai quei momenti, e magari anche allo sconosciuto che ti stava accanto con cui hai cantato tutta la sera.

Se questo è il senso del Rock, ed è certamente una delle migliori versioni che se ne può dare, oggi pochi riescono a farlo venir fuori meglio dei Foo Fighters dei quali abbiamo e avremo bisogno a lungo.

La Scaletta :

Run
All My Life
Learn to Fly
The Pretender
The Sky Is a Neighborhood
Rope
Drum Solo
Sunday Rain
My Hero
These Days
Walk

Cover: Imagine / Jump / Blitzkrieg Bop
Under Pressure (Queen cover cantata da Taylor Hawkins)
It’s So Easy (Guns N’ Roses, con Axl Rose, Slash e Duff McKagan)
Monkey Wrench
Wheels
Breakout
Dirty Water
Best of You
Times Like These
This Is a Call
Everlong

Artù, che meraviglia…

Fa caldo, sei in macchina ancora, sempre sul GRA, e di cose per cui gioire in quel momento ne trovi veramente poche. Poi alla radio senti una intervista ad un cantautore (a te) sconosciuto, senti un paio di pezzi…e ti vergogni.

Ti vergogni perchè non è possibile che tu non abbia mai sentiro prima queste canzoni. Ecco quello che mi è successo pochi giorni fa ascoltando l’intervista che stava andando in onda su Radio Rock  ad Artù, cantautore romano.

A questo punto, giuro, spero di ricevere una marea di insulti di gente che mi scriva..guarda che solo tu non lo conoscevi!, servirebbe ad ad aumentare la mia fiducia sulla diffusione della buona musica in Italia.

Artù canta la vita, diretta come un pugno, con la stessa sagacia, la stessa ironia e, per dono divino, quasi la stessa voce di uno dei miei cantautori italiani preferiti, il mai troppo rimpianto Rino Gaetano.

I testi sono poesie in cui, con semplicità spiazzante, Artù infila riflessioni profonde, piazzandolete di fronte come fossero banalità.

Tutto Passa” , singolo omonimo del secondo album, è un concentrato di vita messo in forma di poesia nei cui versi, in uno o anche in tutti, è impossibile non immedesimarsi, traslando l’emozione dei propri giorni trascorsi in una infinita rielaborazione dell’ IO.  E’ ascoltando questa canzone, con la voce graffiante di Artù che usciva dalla radio della mia macchina che ho “rivisto”, dopo tanto, Rino Gaetano.

 

“Giulia domani si sposa” è uno stupendo racconto autobiografico,tanto delicato quanto estremamente sarcastico, e anche qui, poco da dire..la ascolterei on loop all’infinito.

Francamente credo che cantautori come Artù siano la risposta a chi sostiene che la musica italiana non abbia nulla di nuovo da dare nel Rock; è cantautorale certo, ma è Rock in tutto, in ciò che dice, in come lo dice, proprio come Rino. Se fra tutto l’ottimo rock straniero che ascoltare vi rimane un po di spazio negli I Pod, ve lo consiglio. Io il mio errore l’ho già ammesso e visto che errare è umano ma perseverare diabolico, ho gia rimediato.

Artù su Facebook:

https://www.facebook.com/ArtuAlessioDari

 

Singles: i 25 anni del film manifesto Grunge

Il 2017 è il 25° anniversario dall’uscita del film “Singles, l’amore è un gioco”, diventato manifesto Grunge. Per l’occasione è stata prodotta una versione commemorativa della Soundtrack in versione deluxe, anche in vinile.

Se hai iniziato a leggere questo post perché sai cosa sia Singles e magari hai ancora nella tesa il concerto di Eddie Vedder a Firenze probabilmente stai pensando la stessa cosa che ho pensato io: già 25 anni?! cavoli sto diventando vecchio!

Altrimenti è il momento di saperne di più su questo film.

Singles è un film del 1992 (e fin qui nessuna notizia sconvolgente…25° anniversario nel 2017), diretto da Cameron Crowe, con Bridget Fonda, Campbell Scott, Kyra Sedgwick, Matt Dillon, presentato in Italia con il sottotitolo “l’amore è un gioco” (io mi chiedo….ma perché ?).

In ogni caso la trama di per se non è sconvolgente né memorabile: parla essenzialmente di vari intrecci amorosi, per lo più di due coppie e del loro gruppo di amici; niente che non avremmo visto di li a breve in Friends. Nel complesso quindi un film piacevole, a tratti simpatico, ma non certo tale da giustificare una qualche ricorrenza per il 25° anniversario dalla uscita.

Questo film però ha una particolarità che lo rende unico: come detto l’anno è il 1992 e, cosa ancora più significativa, il tutto è ambientato a Seattle, a dimostrazione che la città esisteva ben prima di diventare famosa per il Seattle Gray.

Quindi? Quindi in quel momento a Seattle stava esplodendo il Grunge e questo film ne è intriso dalla prima all’ultima scena.

Nevermind era uscito da pochi mesi e aveva fatto conoscere l’onda del Seattle Sound al mondo e la città era tutto un fermento di band che tentavano di sfondare, concerti in locali improponibili e giovani che si erano fatti conquistare dal Grunge come suono in grado di diventare colonna sonora immanente del proprio disagio, trasformandolo da genere musicale a vero e proprio movimento culturale.

Il film racconta anche tutto questo, e lo fa coscientemente, dando alla musica un ruolo da protagonista: uno dei protagonisti, Cliff Poncier (Matt Dillon) è (guarda caso) il cantante di un gruppo Grunge alla perenne ricerca di fortuna. Parlando del suo gruppo poi occorre aprire il secondo aspetto Grunge del film, i cameo. Il film infatti è costellato di apparizioni dei protagonisti della scena musicale cittadina. Il batterista del gruppo di Dillon è infatti interpretato da Eddie Vedder. All’interno del film troviamo anche Chris Cornell e Layne Staley. Insomma guardare questo film è un po come fare un tour nella Seattle musicale di inizi novanta e, diciamoci la verità, chi non vorrebbe farlo un tour del genere.

Poi c’è la cosa più importante: una colonna sonora pazzesca, ovviamente in gran parte sorretta dalla scena Grunge (Alice in Chains, Pearl Jam, Soundgarden, Mother Love Bone, Screaming Trees ), impreziosita da innesti significativi (The Smashing Pumpkins e Jimi Hendrix su tutti), oltre ad una serie di pezzi scritti da Chris Cornell appositamente per l’occasione.

Il Grunge, all’epoca ancora all’inizio della propria storia, ha poi finito per essere la colonna sonora di una intera generazione e, per certi versi incredibilmente, questo film, trascendendo ogni significato originariamente attribuibile alla trama, proprio grazie al ruolo della musica, ha superato i propri limiti finendo per diventarne il manifesto e, in qualche modo il simbolo della generazione stessa.

In conclusione, un film che, prescindendo dalla trama, devi vedere e (soprattutto) una colonna sonora fantastica che devi avere.

Per l’occasione è stata prodotta una versione commemorativa della Sountrack in versione deluxe, anche in vinile.

Singles Soundtrack (Deluxe Edition) CD Tracklist:
Disc 1:
01. Alice in Chains – Would?
02. Pearl Jam – Breath
03. Chris Cornell – Seasons
04. Paul Westerberg – Dyslexic Heart
05. The Lovemongers – Battle of Evermore
06. Mother Love Bone – Chloe Dancer / Crown of Thorns
07. Soundgarden – Birth Ritual
08. Pearl Jam – State of Love and Trust
09. Mudhoney – Overblown
10. Paul Westerberg – Waiting for Somebody
11. Jimi Hendrix – May This Be Love
12. Screaming Trees – Nearly Lost You
13. The Smashing Pumpkins – Drown

Disc 2:
01. Citizen Dick – Touch Me I’m Dick
02. Chris Cornell – Nowhere But You
03. Chris Cornell- Spoonman
04. Chris Cornell – Flutter Girl
05. Chris Cornell – Missing
06. Alice in Chains – Would?
07. Alice in Chains – It Ain’t Like That
08. Soundgarden – Birth Ritual
09. Paul Westerberg – Dyslexic Heart
10. Paul Westerberg – Waiting for Somebody
11. Mudhoney – Overblown
12. Truly – Heart and Lungs
13. Blood Circus – Six Foot Under
14. Mike McCready – Singles Blues 1
15. Paul Westerberg – Blue Heart
16. Paul Westerberg – Lost in Emily’s Woods
17. Chris Cornell – Ferry Boat #3
18. Chris Cornell – Score Piece #4

EDDIE VEDDER, cause world need heroes (scaletta ed emozioni del Concerto di Firenze)

Ci sono giornate no, dure da digerire come una scatola di chiodi, in cui ti senti fuori posto ovunque, in cui speri di no, ma dentro sai che hai fatto l’ennesima scelta sbagliata, sull’ennesima persona che ti ha lasciato di sasso.

E poi c’è la musica, potente catalizzatore di tutto il tuo mondo.

Andare ad un concerto di Eddie Veddere, che sia accompagnato dai suoi Pearl Jam o da solo, è sempre una emozione particolare perché, si sappia, Eddie Vedder non è un cantante: è un supereroe della Marvel, un Avanger col potere di farti credere che, forse, un mondo migliore ancora può esistere.

Prima del frontman dei PJ sale sul palco Glen Hansard, dublinese che, anche volendo, non sarebbe potuto essere più irlandese di così, sia nel fenotipo, che nelle atmosfere. Con lui i 50.000 dell’arena entrano in una atmosfera intimista, simile ad una serata in Temple Street. Ma è bravo e la gente lo segue, riscaldandosi per la portata principale.

Alle 22.45 (orario insolito…a quanto pare dovuto alla concomitanza del concerto con la festa patronale fiorentina….e quindi? mah!) finalmente sale sul palco Eddie Vedder. Personaggio complesso, anche lui ha i suoi fantasmi da portare dietro e lo fa caricando di passione e di emozione il concerto.

Il timore che rumoreggiava fra alcune nel pubblico, ossia che la formula in solitario chitarra e voce  si adattasse male al concerto da festival estivo e fosse da preferire in ambienti più ristretti, svanisce fin dalle prime note.

Sul palco c’ lui solo, le sue chitarre e la sua voce e l’effetto è estremamente coinvolgente. Sei li, in mezzo alla folla, ma hai quasi l’impressione di essere con un gruppo di amici e qualche birra in un prato, o in spiaggia: uno tira fuori la chitarra ed inizia  cantare e gli altri gli vanno dietro. Solo che qui l’amico che canta è Eddie e gli altri sono una folla oceanica che riempie l’arena.

La scaletta si regge principalmente su pezzi dei PJ, con l’innesto dei sui brani da solista, primi fra tutti quelli inseriti nella soundtrack di “Into the wild” di e alcune cover di Neil Young (fra cui l’immancabile Rockin’ in the free world), dei Pink Floyd (Brain damage e Comfortably numb) e una versione stupenda di Imagine di  John Lennon cantata assieme al pubblico.

Eddie ha alternato grande energia e situazioni quasi epiche (come quando è sceso fra il pubblico ed ha iniziato a cantare sorretto dalla folla) a momenti delicati, quasi commoventi. Senza dubbio uno di questi è stata la versione proposta di Black terminata sussurrando in ripetizione le parole “come back” e trattenendo a stento le lacrime, senza riuscire a ripetere per l’ultima volta le parole, generando una ondata di emozione generale.

Per gli ultimi pezzi risale sul palco Glen Hansard e insieme duettano in maniera estremamente coinvolgente.

E’ per questo che Eddie, in fondo, è un supereroe: quando canta trasmette empatia come pochi; sei in mezzo a decine di migliaia di persone ma ti senti ad un raduno fra pochi amici, ammesso per benevolenza alla setta dei poeti estinti, assapori i momenti di poesia in musica che offre. Ad un suo concerto salti, batti le mani, canti, tutto con la sensazione inspiegabile di essere speciale solo per il fatto di essere li; te ne vai con la consapevolezza che hai assistito a qualcosa di bello che scaverà ancora dentro di te.

Per fortuna ogni tanto si incrocia un eroe, e il mondo ne ha un gran bisogno.

 

SCALEETTA

  1. Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town
  2. Wishlist
  3. Immortality
  4. Trouble (cover di Cat Stevens)
  5. Brain damage (cover dei Pink Floyd)
  6. Sometimes
  7. I am mine
  8. Can’t keep
  9. Sleeping by myself
  10. Setting forth
  11. Guaranteed
  12. Rise
  13. The needle and the damage done (cover di Neil Young
  14. Unthought known
  15. Black
  16. Porch
  17. Comfortably numb (cover dei Pink Floyd)
  18. Imagine (cover di John Lennon)
  19. Better man
  20. Last kiss (cover di Wayne Cochran)
  21. Falling slowly (cover degli Swell Season)
  22. Song of good hope (cover di Glen Hansard)
  23. Society (cover di Jerry Hannan)
  24. Smile
  25. Rockin’ in the free world (cover di Neil Young)
  26. Hard sun

Guns N’ Roses Tour 2017 “Not in this lifitime”: resoconto di un evento

Ok, quando è uscita la notizia di un Tour dei Guns in versione (praticamente) originale – il che significa Axel, Slash, Duff e Richard di nuovo insieme- eravamo tutti un po scettici sulla effettiva resa sul palco della band californiana, sensazione accreditata anche dalle ultime performace note di Axel, non esattamente all’altezza. Il rischio della operazione puramente commerciale incombeva concreto su tutti noi.

In ogni caso le premesse per un concerto evento c’erano tutte e diventava imperativo esserci: ero troppo piccolo per poter andare a Venezia a sentire i Pink Floid in quel loro concerto epocale ed ho sempre guardato un po di invidia coloro che, invece, possono dire “io c’ero”. Questa vola bisognava esserci, prescindendo da come avrebbero suonato.

Pre-ritrovo a Bologna la sera prima: un volo da Catania, un’altro da Milano, due macchine dalla Toscana e da Roma…lo sforzo logistico da l’idea delle aspettative che vengono riposte nel GNR’s day.

La giornata si preannuncia lunga, calda e il concerto una prova di resistenza fisica notevole (altro che Spartan). In arrivo una folla oceanica e volendo proprio essere onesti l’organizzazione qualche pecca la dimostra (senza dilungarmi cito giusto i famigerati token, una sorta di fiches che chi vuol provare a mangiare o bere qualcosa deve necessariamente acquistare-direi prossimi alla truffa legalizzata).

Quando ancora l’arena si sta riempiendo iniziano a suonare Phil Campbell and the Bastard Sons seguiti dai The Darkness  danno una prima scaldataal pubblico. Ottime performace entrambe, ma è chiaro che l’autodromo, ormai pieno come non lo avevo mai visto, aspetta la portata principale.

Sono ormai le nove passate quando iniziano a suonare i Guns ironicamente aperti dalla sigla dei Looney Tunes.

Il viso di Axel non promette nulla di buono: una maschera invecchiata male e corretta peggio chirurgicamente.

Ma la musica, quella è tutta un altra cosa, ed è anche l’unica cosa che conti. Iniziano a macinare pezzi con una qualità musicale e vocale impressionante; partenza con It’s so Easy: si sono loro,  la chitarra di Slash irrompe peculiare e riconoscibile e la voce di Axel si scalda dopo poche strofe e c’è in pieno.

Quasi subito dal palco arriva la domanda “do you know where you are” “you are in the jungle baby”. Parte il riff e il prato diventa una bolgia ingovernabile di corpi che saltano, spingono, ondeggiano spinti da altri 80 mila accanto a loro. (e qui spunta la domanda che arriva sempre a quel punto dei concerti..su chi me lo abbia fatto fare).

La  scaletta prosegue retta dalla ossatura di di Appetite For Destruction (8 brani dell’album fatti in totale), e i fan non possono che apprezzare: non manca nessuno dei pezzi fondamentali, da Civil War a Paradise City, passando per Knockin’ on Heaven’s Door, Sweet Child O’ Mine, Patience e Dont’ Cry. Tutte eseguite veramente bene con una resa davvero  coinvolgente e alcuni momenti letteralmente da pelle d’oca, come quando si accendono  le luci e Axel, seduto al piano, inizia a suonare November Rain. 

A queste condizioni si accetta benevolmente anche qualche intromissione da Chinese Democracy.

La marea umana presente ha saltato, ha cantato a squarciagola gran parte dei pezzi, come la cover strumentale di Wish you where here interamente sorretta vocalmente dal pubblico; ha applaudito la cover tributo di Black Hole Sun, il tutto per quasi tre ore di concerto devastante, in ogni senso. 

E alla fine anche quella domanda retorica che per un attimo si era fatta strada nella mente (su chi me lo avesse fatto fare), trova la sua risposta: non si è qui per sentire questa o quella canzone. Si è qui per tutta una vita. Per vivere un evento che ha coinvolto tre generazioni, magari con chi quella musica 20 anni fa con te la ascoltava o la suonava, o con chi ti sta accanto in questo momento; per una sorta di catarsi collettiva che parta dalla tua adolescenza e guardi al futuro. Ciascuno aveva il proprio motivo per esserci, l’importante era essere qui.

Sei qui anche perché, dopo la morte di Chris Cornell, ennesima botta ad un decennio fondamentale della tua vita, urge una rivincita. E i Guns, con un concerto così, quella rivincita la danno.

Insomma gente se c’eravate sapete di cosa parlo: ricordatevi con chi eravate, perché questo è un concerto che farà epoca e che, come pochi altri, dividerà in due fra chi c’era e chi no. Questa volta c’ero.

La scaletta del concerto riportata a questo link

PS. Non attaccate con cose del tipo Slash ha infilato un paio di stecche negli assoli di November Rain o Axel ha cantato qualche tono più basso….un evento del genere non si giudica da questo.

 

Acid Muffin: ottimo Hard Rock made in Italy

Trio romano (Marco Pasqualucci chitarra e voce, Grabriel Alvarez basso, Andrea latini batteria), gli Acid Muffin sonoforse una delle migliori novità del panorama rock nazionale.

La band ha recentemente presentato l’album “Bloop” , 12 canzoni cantante in inglese e lanciate dal primo singolo “The last illusion” , pezzo in cui emergono tanto le capacità armoniche quanto l’influenza più hard rock del trio.

Ascoltando gli Acid Muffin si sente subito una certa influenza grunge senza disdegnare riflessi punk rock ed hard rock, con un risultato complessivo che, anche grazie ai testi in inglese, rendono molto internazionale il prodotto finale.

Line up essenziale classica, chitarra basso batteria, in cui si alternano riff muscolari a linee di basso più pronunciate così che il suono emerge sempre pieno ed energico.

In Bloop tuttavia non mancano anche pezzi più armonici, come la delicata “Smoking my little soul” in cui, ad un intro piano e voce segue una seconda parte più urlata ottimamente arrangiata in un crescendo piacevole.

E le capacità di arrangiamento emergono anche e soprattutto nell’ascolto della band in versione acustica. In una intervista per Metal Hammer spiegano infatti “Abbiamo passato diversi mesi a ri-arrangiare i brani in acustico, non è stato semplice trovare quella morbidezza nascosta nei brani di Bloop da riproporre poi dal vivo. L’atmosfera è totalmente diversa, molto più intima. È  un po’ come essere nudi sul palco. Non possiamo dire di preferire il set elettrico a quello acustico perché sono sensazioni differenti e ci troviamo a nostro agio in entrambe le dimensioni. Comunque è da un po’ che abbiamo in mente di incidere un album completamente acustico quindi non è da escludere che più avanti potremmo metterci a lavorare per realizzarlo.”

Che dire, un lavoro convincente, ottime capacità nei live, ci sono tutte le premesse per seguire con attenzione le prossime tappe degli Acid Muffin.

www.acidmuffin.com