DI ALBERTO EVANGELISTI
Con quello di ieri sera allo Stadio Olimpico, dopo i concerti di Milano e Padova, si chiudono le tre tappe italiane del tour 2018 dei Pearl Jam.
Inutile dire che l’attesa era molta, per più di un motivo: Eddie e compagni infatti non suonavano in Italia da 4 anni, e a Roma da ben 22, in quello che rimase uno dei concerti più iconici del Grunge anni 90, definito dallo stesso frontman dei Pearl Jam ieri sera durante lo show, come uno dei più importanti della sua carriera.
C’era poi una grande attesa di vedere la prestazione del gruppo dopo l’annullamento della data londinese a causa della perdita di voce di Eddie Vedder e le condizioni ancora precarie di Milano.
Quando si parla dei Pearl Jam però, c’è sempre qualcosa di più: una sorta di catarsi collettiva di un popolo che, insieme, fan dei primi anni novanta e nuovi, ciascuno a proprio modo e con le proprie aspettative, partecipa agli eventi con trasporto e ritualità, trasformando di volta in volta lo stadio o il palazzetto di turno in un tempio.
Molte facce sono familiari, fan che si rivedono, concerto dopo concerto, o che si tengono in contatto tramite l’uso di social come il gruppo Facebook “Pearl Jam Italia”, piazza virtuale di confronto e, talvolta, di sano scontro sul mondo targato Pearl Jam.
Per tutti loro la giornata inizia molto presto, con l’apertura dei cancelli alle quattro passate dopo che, in molti casi, erano in fila già da ore, per una attesa impaziente che si protrarrà, in una giornata di intenso caldo estivo, fino alle 21.20 quando, finalmente, il concerto inizia.
C’è sempre un’aria particolare ad un concerto dei Pearl Jam. Probabilmente dipende anche dal fatto che, negli anni, Mother Love Bone, Nirvana, Stone Temple Pilot e da ultimo i Soundgarden con la morte di Chris Cornell avvenuta poco più di un anno fa, praticamente tutti i principali attori del Seattle Sound sono stati colpiti dalla stessa sorte maledetta, così che i Pearl Jam sono, di fatto, gli ultimi superstiti di un mondo, quello del Grunge, che ha rappresentato (e rappresenta) per una generazione la risposta ad un profondo disagio, probabilmente mai realmente elaborato, e che ha pagato a caro prezzo questo ruolo.
Inizia il concerto e Eddie c’è, e si vede subito. Si parte con il classico Realese con cui si appassiona immediatamente il pubblico che, nel crescendo della canzone, canta il pezzo a squarcia gola.
Da quel momento inizia un susseguirsi di tre ore piene di concerto, con una alternanza ottimamente dosata di momenti riflessivi, quasi intimistici, ad altri decisamente energici ed aggressivi Il tutto sapientemente costruito con una scaletta ben equilibrata, formata da pezzi vecchi adorati dal pubblico, spesso tratti da “Ten” (ma personalmente non posso citare State of Love and Trust ), a pezzi più nuovi come Lightning Bolt o l’ultimo singolo Can’t Deny Me e cover, fra le quali sono spiccate Imagine (J Lennon), Comfortably Numb (Pink Floyd) e la classica chiusura con Rockin’ in a free world (N. Young).
Il pubblico ha tutto ciò che cerca, dalle immancabli Black e Alive nei bis, Jeremy, Given to Fly e Even Flow, che hanno letteralmente fatto esplodere lo stadio.
La voce di Eddie tiene bene e lui conferma di essere realmente unico nell’ammaliare il suo pubblico, nello spingerlo a cantare, saltare, urlare per tutte le tre ore di concerto.
Ma c’è di più. Certo il ruolo fondamentale di Eddie nelle dinamiche è fuori discussione, ma i Pearl Jam, nel loro complesso, sono ormai un gruppo maturo, che ha trovato decisamente equilibrio e consapevolezza delle proprie capacità, anche tecniche; che vive bene il proprio ruolo. E questa forse è un’altra delle attese che in molti avevano da questo tour: lo scorso anno Eddie Vedder si era presentato a Firenze da solista, incantando letteralmente i 60.000 del Firenzerock, riuscendo a trasformare un evento da festival in qualcosa di intimo e speciale. Ma chi ha assistito ad entrambi gli eventi non dovrebbe avere dubbi: I Pearl Jam sono altro, sono di più, danno allo stesso Eddie Vedder un valore aggiunto, una sinergia unica che sarebbe impossibile da ottenere senza la parte ritmica di Matt Cameron e Jeff Ament, senza la bravura di Mike McCready (a mio avviso stupendo nella cover di Comfortably Numb) e di Stone Gossard.
La musica dei Pearl Jam, così come la band, vuole anche dare messaggi che vadano al di la del mero spettacolo. I Pearl Jam del resto non si sono mai fatti problemi ad esporsi e prendere posizione su questioni sociali e politiche. Il concerto di Roma non ha fatto eccezione: prima con un messaggio lanciato introducendo Imagine:”nel nostro paese stanno accadendo cose che lo rendono diverso da come lo abbiamo lasciato qualche settimana fa”- con un chiaro riferimento alla questione dei c.d. bambini in gabbia e a Trump – “non smettiamo di lottare per la pace, dipende da tutti noi”. Poco dopo Eddie ha mostrato e indossato a mò di mantello, una bandiera datagli dal pubblico con su la scritta “Fuck Trump, love life”, in fine facendo comparire sui maxi schermi l’astag #apriteiporti.
Alla fine della serata il rito è compiuto; Ciascuno, pubblico e band, se ne va avendo ottenuto ciò che voleva e, cosa più importante, ciò di cui avevano bisogno, stremato ma rasserenato, con la speranza lasciata dal saluto finale della band all’ Olimpico :”forse ci rivedremo l’anno prossimo”.
La scaletta della serata
Release
Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town
Interstellar Overdrive
Corduroy
Why Go
Do the Evolution
Pilate
Given to Fly
Even Flow
Wasted Reprise
Wishlist
Lightning Bolt
Again Today
Untitled
MFC
Immortality
Unthought Known
Eruption
Can’t Deny Me
Mankind
Animal
Lukin
Porch
Encore:
Sleeping by Myself
Just Breathe
Imagine
Daughter
Encore:
State of Love and Trust
Black Diamond
Jeremy
Better Man
Encore:
Comfortably Numb
Black
Rearviewmirror
Alive
Rockin’ in the Free World