Say hello to heaven Chris Cornell

Aprire distrattamente il cellulare e leggere una notizia che non ti aspettavi, che non avresti mai voluto leggere: anche Chris Cornell ci ha lasciati. Troppo presto.

Per chi, come me, nato alla fine degli anni ’70, era in piena adolescenza durante l’ esplosione del Grunge, questa non può essere una notizia come tante. Certo il Seattle sound ci ha abituati a piangere i suoi eroi, troppo spesso vissuti velocemente e morti velocemente, come tanti Achille del Rock.

Troppo spesso ci siamo consolati ascoltando i loro capolavori, o le canzoni dedicate da qualche super gruppo tributo, come i Temple of the Dog di cui ho avuto già modo di scrivere qui.

Chris non è il primo: fin dalle origini Andrew Wood, Kurt, Layne Staley, tutte stelle spente troppo presto. Ora ci ha lasciati una delle voci più belle e peculiari del Grunge e in generale del Rock, e con lui se n’è andato un altro pezzo della nostra adolescenza, dei nostri sogni, di noi:  ad esempio svanisce un po, diradandosi,  quella sera, passata a cantare con gli amici per strada, con una chitarra, discutendo di quale fosse il gruppo migliore, o quella volta in cui  per vedere un concerto abbiamo guidato tutta la notte o  dormito per terra alla stazione di Milano. Le birre con gli amici, il momento in cui ancora non avevi mai indossato una cravatta e l’unica seconda pelle che avevamo, al massimo, era un t-shirt con il sorriso ubriaco e la scritta Nirvana.

E mentre certe cose spariscono, altre si concretizzano: ora sai che non vedrai più quel concerto dei Temple of The Dog a cui tanto avresti voluto assistere, che non ci sarà più un nuovo albun dei Sound Garden che ti fa pensare che in fondo ancora spaccano.

Soprattutto ti rendi conto, una volta di più, che la vita alla fine è questo: pezzi del tuo passato che man mano ti lasciano segnando il conto dei tuoi giorni che passano.

Supereremo anche questa, con le cuffie per ascoltare quelle canzoni ancora una volta, con una chitarra o un basso per suonarle di nuovo, consumando i vinili, ricordando chi eravamo e chi, in fondo, un po siamo ancora. Perché alla fine, anche se tante cose ci abbandonano, qualcosa di loro rimarrà sempre in ciascuno di noi e sapere che quei frammenti esistono e accomunano tanti di noi, un po aiuta.

Chriss Cornell ha cantato una infinità di canzoni meravigliose, ma in questo momento mi sento di salutarlo con quella che lui scelse per salutare il sui amico Andrew.

Say Hello to Eaven, Chyris

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Mad Season, il “supergruppo” Grunge

Quando si parla di “supergruppi” e di Grunge una menzione d’obbligo va fatta anche per i Mad Season.

Quell’alchimia particolare creata dall’incrocio fra un periodo, i primi anni novanta, ed una città, Seattle ha regalato alla storia del rock una delle sue espressioni più peculiari. Ok, che tenga particolarmente al Grunge ormai si è capito.

Non è però solo una questione musicale, di sonorità. Ciò che forse più di ogni altra cosa attrae del Seattle sound è l’atmosfera, il legame, quasi il senso di appartenenza dei musicisti che ne hanno determinato la storia e le fortune.

Forse proprio perché Seattle è una città abbastanza isolata, i gruppi ed i musicisti sono maturati in un ecosistema misto e chiuso, fatto di relazioni, di progetti condivisi e di “supergruppi”. Uno di cui vi ho già detto in questo post sono i Temple of the Dog. 

Altro esempio iconico è rappresentato dai Mad Season. 

Il tutto nasce, come spesso in storie come questa, dall’incontro casuale di due musicisti, tanto diversi nella storia personale, quanto simili nei tratti musicali che esprimono: Mike Mc Cready, chitarra solista nei Pearl Jam (si, quando c’è una bella storia di Grunge i Pearl Jam in qualche modo c’entrano sempre) e di un bassista allora semi-sconosciuto nativo di Chicago, John Philip Saunders.

L’incontro avviene in un centro per la riabilitazione di alcolisti e tossicodipendenti (anche questo non è esattamente un aspetto di novità nella storia del Rock) a Minneapolis, e quale miglior terapia che buttarsi in jam sessions improvvisate.

In breve venne coinvolto l’amico comune e membro di un’altro gruppo fondante del movimento di Seattle,  Layne Staley degli Alice in Chains. Ultimi ad essere inseriti nel progetto furono il batterista ed il leader  degli Screaming Trees , Barrett Martin e Mark Lanegan.

Il “supergruppo” venne da prima “ironicamente” (ma neanche troppo viste le abitudini dei membri) chiamato  Drugs Addicts And Alcoholics , quindi Gacey Bunch ed infine Mad Season. L’idea era quella di suonare un po in giro, specialmente nei locali della città, primo fra tutti il Crocodile Cafè, famoso locale gestito dalla moglie di Peter Buck dei R.e.m., senza il progetto concreto di trarne nulla di che, solo per il gusto di fare.

Ma eravamo già alla metà degli anni 90, il Grunge era esploso nel mondo e le case discografiche erano alla continua ricerca di nuovi progetti da sponsorizzare. Un gruppo formato da nomi come i componenti dei Mad Season non poteva certo sfuggire alle Major.  La  Columbia infatti offre loro un contratto per un disco, Above, che uscirà nell’aprile del 1995.

Il disco, la musica insieme, diventano così la terapia di gruppo in cui infilare tutte le contraddizioni e i fantasmi che li permeavano. La cosa è evidente già col primo singolo,  Wake Up, ballata lenta perfettamente armonizzata dalla peculiare voce di Layne Staley.

River of Deceit, traccia numero tre, è un’altra ballata di estrema bellezza e delicatezza, anche se infusa da un sottofondo di tristezza, quasi disperazione,  in cui il gruppo fonde la propria esperienza Grunge con i tratti tipici del rock anni 70.

La parte energetica dell’album è assicurata da tre pezzi in cui i tratti Grunge discendenti dall’hard rock sono più marcati : I’m Above, Artificial Red e Lifeless Dead. Quest’ultimo pezzo in particolare miscela un riff di memoria vagamente (neanche troppo)  “sabbathiana” ad una parte ritmica e lirica molto vicina agli esordi degli Alice.

I don’t know anything è un altro pezzo dai contorni tipicamente Grunge, fortemente caratterizzato dalla vocalità di Layne Staley e da una ritmica costante, quasi ipnotica.

Pezzo peculiarissimo invece è Long Gone Day. Ritmica morbida, assicurata da un giro di basso leggero ma persistente, xilofono e tonalità quasi caraibiche, il tutto in una lirica talvolta sussurrata, altre volte urlata, accompagnata da picchi di sax caldo.

Above, album caratterizzato da pezzi buoni, alcuni veri e propri capolavori, rimarrà purtroppo un’opera unica.

Da prima gli impegni dei vari componenti con i rispettivi gruppi di origine ha reso impossibile la prosecuzione dell’esperienza.

Baker morirà di overdose nel 1999 e a tre anni di distanza anche Staley lo seguirà. Tutti per colpa di quello stile di vita che, in fondo li ha da sempre accomunati e fatti incontrare, così che ciò che ha creato questo stupendo album, l’elemento catalizzatore di tutto, è anche il motivo ultimo per cui rimarrà unico.

Nuovo album e tour per Caparezza

Prossima uscita di un nuovo lavoro per Caparezza: il 15 settembre è infatti stata annunciata l’uscita del suo nuovo album. Ad oggi ancora non sono noti particolari, ma c’è grande attesa fra i tanti che amano l’artista pugliese.

Oltre al nuovo lavoro Caparezza ha anche annunciato le date del tour 2017

CAPAREZZA TOUR 2017
17 novembre – Ancona
18 novembre – Bari
25 novembre – Bologna
28 novembre – Napoli
29 novembre – Roma
1 dicembre – Montichiari
2 dicembre – Padova
6 dicembre – Milano
7 dicembre – Torino

I biglietti saranno in vendita su Ticketone.it a partire dalle ore 10.00 di venerdì 12 maggio.

in attesa delle nuove canzoni un pezzo tratto dal vecchio lavoro